Mi chiamo Sebastian e ho tre problemi: fumo troppo, bevo quantità industriali di caffè e scrivo come se avessi problemi di incontinenza

Intervista a Sebastian Funari

Buongiorno Sebastian, ci fa piacere averti in redazione per questa intervista.

Raccontaci di Te. Cosa fai nella vita e di cosa Ti occupi?

Ciao, Ray. Ciao a tutti. Lasciatemelo dire, l’idea di un’intervista scritta è geniale.
Questa è la mia prima volta, e poter raccontare di me scrivendo anziché parlando mi toglie un bel peso. Non perché io soffra d’ansia da palcoscenico o non riesca a parlare in pubblico, il problema è che potrei parlare troppo e ad un certo punto avreste bisogno di una squadra antisommossa per tapparmi la bocca. Mi piace parlare, non ci posso far nulla. Sono uno di quelli che quando ha corda parla, parla, parla anche a costo di inventarsi qualcosa pur di tenere viva la conversazione. Comunque lo prometto, sarò rapido, sintetico e veloce.
Per rispondere alla domanda su chi sono e cosa faccio nella vita, citerò me stesso parafrasandomi da una precedente intervista, la prima in cui ci siamo conosciuti: «Mi chiamo Sebastian e ho tre problemi: fumo troppo, bevo quantità industriali di caffè e scrivo come se avessi problemi di incontinenza.» Forse ho esagerato, e forse è un ritratto tutt’altro che idilliaco. Ma vi assicuro che è la verità. Sono una persona qualunque, senza cappotto ma con occhiali e cappello, che sta alla scrittura quasi quanto il sorriso sta a una bella donna.

Cosa ti ha spinto a diventare uno scrittore?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare indietro di ben tredici anni.
In quel periodo lavoravo come addetto alla sicurezza negli impianti fotovoltaici, e il mio compito consisteva nello starmene seduto dieci ore al giorno ad aspettare che accadesse qualcosa. Di recente avevo perso quello che era (ed è tutt’ora) il mio migliore amico, capirete quindi che non ero proprio al massimo della forma.
Per farla breve, erano da poco passate le dieci e venti di un mattino di giugno torrido e bollente come pochi, quando d’un tratto scoppiai a piangere nel peggiore dei modi. Mancava l’aria, si moriva dal caldo e qualsiasi cosa tentassi di fare per calmarmi era peggio.
Vi risparmio i particolari, fatto sta che senza sapere né come né perché salii in macchina, raggiunsi la cartoleria più vicina e comprai una penna e un bloc-notes.
Tornai indietro e restai a fissare per un minuto buono la mia prima pagina bianca. Poi iniziai a scrivere e da allora non ho più smesso.
A conti fatti, credo che a spingermi a diventare uno scrittore non sia stato il bisogno di raccontare, quanto tenere viva la memoria del mio amico immaginando le avventure che avremmo vissuto.
A proposito, quel bloc-notes ce l’ho ancora.

 Quali sono gli elementi della scrittura più importanti per te?

A questa risponderò con la prima cosa che mi viene in mente: il ritmo. In qualsiasi forma d’arte, in questo caso la scrittura, l’elemento su cui più di ogni altro, secondo me, bisognerebbe spendere più tempo del necessario è il ritmo. Come nella musica, così come in un racconto o in un romanzo, ciò che conta è la cadenza. Le persone continueranno a leggerti se il tuo stile è piacevole, naturale e continuo. Anche la storia più banale, se ha ritmo, condurrà per mano il lettore fino alla fine senza che se ne accorga.
Dopo il ritmo viene la melodia, che in letteratura è l’ordine più appropriato di mettere in fila le parole. Se la prosa preserva il ritmo in maniera piacevole e fluida, non puoi desiderare altro perché vengono a crearsi quell’armonia e quei suoni mentali che rendono la scrittura davvero efficace. Secondo me non bisogna sforzarsi di trovare parole nuove o scervellarsi per creare assurde tecniche narrative. Per come la vedo io, uno dei compiti dello scrittore è dare nuove espressioni e sfumature a parole assolutamente normali. Significa avere un territorio vasto e sconosciuto, fertile, che aspetta solo di essere coltivato. Mi piace mantenermi semplice ed efficace.

Perché sei diventato uno scrittore?

Come già anticipato prima, scrivere aiuta a tenere vivo il ricordo del mio amico e dà un senso alle mie giornate. Da quell’amara mattinata di giugno in cui tutto ebbe inizio, raccontare storie ha migliorato la qualità della mia vita in maniera esponenziale.
E con la parola “vita” non intendo la mia carriera letteraria che, ovviamente, ne ha tratto beneficio, ma proprio la mia carriera umana (sociale, biologica ed emotiva).
Non esagero quando dico che scrivere, per me, è uguale a sopravvivere. Se non lo facessi tutti i giorni, il male si accumulerebbe, e inizierei a vivere nel modo sbagliato o a fare follie o entrambe le cose. Sono uno scrittore perché, come la droga, dopo aver assaggiato per la prima volta il piacere di infilare una parola dietro l’altra, ne sono diventato dipendente.

Vado spesso in overdose di scrittura per far sì che i demoni della realtà non mi distruggano.

Col tempo ho imparato che se resto un giorno senza scrivere mi innervosisco. Due giorni e inizio ad agitarmi. Tre giorni e inizia a farmi male la testa e non dormo. Al
quarto giorno potrei benissimo essere un omuncolo che balla la lambada in mutande alle quattro del mattino.

Fino a che punto i Tuoi libri sono realistici?

Diciamo pure che l’ottanta percento delle mie storie è vero. Il restante venti è pura immaginazione. Tuttavia, la realtà di cui parlo non si riferisce a eventi realmente accaduti (tranne in alcuni casi) piuttosto alle persone che mi capita di incontrare quando me ne vado in giro fischiettando con le mani in tasca a osservare cosa c’è di nuovo nel mondo. Alcuni miei racconti sono bizzarri, al limite dell’assurdo, ma ciò che conta, e su cui voglio porre l’attenzione, non è la trama o lo svolgersi degli eventi, ma sono i personaggi e il modo in cui essi reagiscono difronte all’inverosimile.

Parliamo di gente strana in mondi banali, persone banali in mondi strani, persone strane in mondi strani e persone banali in mondi banali (quest’ultime non così tante).

Non c’è insegnamento morale nelle mie storie (e meno male, Dio ce ne scampi) perché sono proprio loro, i protagonisti, che mandano avanti tutta la baracca. Anche il racconto più originale, senza un personaggio autentico che ne sia degno, perde di fascino e singolarità. Alcuni dei luoghi che descrivo sono veri, altri inventati. Ciò nonostante, oso
dire che i paesaggi e gli individui che rappresento non sono del tutto immaginari.

Quali attori pensi che interpreterebbero i tuoi personaggi se il tuo libro fosse trasformato in un film?

MA MAGARI! Se mai faranno del mio libro un film, significa che qualcuno fuori di testa più di me ha sborsato una sommetta non indifferente per acquistarne i diritti, denaro con il quale il sottoscritto risolverà una delle peggiori chimere che afferrano per la gola molti di noi: pagare il mutuo di casa.
Scherzi a parte, finora non ho mai pensato a chi potrebbe interpretare i personaggi dei miei racconti. Ora che mi ci fai riflettere, però, direi che per i ruoli maschili Nicolas Cage (Il mistero dei Templari, Con Air) e Anthony Hopkins (Il silenzio degli innocenti, Vi presento Joe Black) siano una buona scelta perché entrambi ricoprono parti sia drammatiche che utopistiche. Per il cast femminile, invece, andiamo sul classico: le compiante Audrey Hepburn (Colazione da Tiffany, Vacanze Romane) e Grace Kelly (Caccia al ladro, La finestra sul cortile). Donne affascinanti, carismatiche e dal carattere forte.
A dirigere l’orchestra metterei Quentin Tarantino per le storie fuori di testa, Clint Eastwood per quelle che sanno di epicità, Christopher Nolan per quelle che nonostante uno le rilegga più volte non si riesce mai a capire cosa accidenti vogliano dire, mentre per quelle divertenti metterei il top del top Mel Brooks.

Qual è l’ultima opera che hai pubblicato?

Da quanto tutto è cominciato, ho pubblicato non pochi racconti con varie case editrici e partecipato ad altrettanti concorsi che, ringraziando la mia buona stella e coloro che vegliano su di me, mi sono valsi una considerevole quantità di premi, riconoscimenti e menzioni che hanno confermato che stavo facendo la cosa giusta.
Tuttavia, Microstorie per gente impegnata è la prima raccolta di micro racconti pubblicata ufficialmente. Come da titolo, si tratta di un’antologia composta da brevi mezzi narrativi di esattamente 500 parole ciascuno (titolo escluso) pensati e scritti per persone che non hanno tempo ma vorrebbero trovarne un po’ per leggere. Storie tascabili, belle e pronte, perfettamente a misura di morso, da tenere in borsa e sfogliare ogni qualvolta gli impegni quotidiani lo permettono. Niente di accademico, serio o troppo serio, è tutto lì, al servizio di chi ne ha bisogno. Cinquanta storie nate dall’amore per la fantasia, sia quella della spada che della stregoneria, sia per i piccoli atti di magia che possono trasformare un mondo ordinario in qualcosa di insolito, che trasporteranno il lettore nei regni dell’immaginazione giusto il tempo necessario per finire una tazza di tè o raggiungere la prima fila al supermercato.

Qual è la meta finale del viaggio della tua vita?

Ammiravo scrittori di successo come Stephen King, Haruki Murakami o John Grisham (autori che, come me, sono partiti da zero facendosi strada a tentoni nel nulla) chiedendomi: «Perché loro hanno successo? Come fanno? Sarà per fortuna o per qualche predisposizione preclusa a chi non vive oltreoceano?» Con pensieri del genere in testa, ho trascorso anni a studiare queste figure mistiche, a lavorare, osservare, imitare, applicare e sperimentare gli insegnamenti che traevo dalle loro opere. Anni di tentativi, successi e buchi nell’acqua. Finché, ad un certo punto, ho realizzato che la differenza tra chi ottiene risultati e chi non li ottiene è più ovvia di quanto non sembri: i primi sono disciplinati e si impegnano giorno per giorno compiendo azioni che permetteranno loro di arrivare allo scopo; mentre i secondi vivono alla giornata, non hanno ambizioni concrete e non mantengono gli impegni nemmeno con sé stessi.
Una delle cose importanti che ho imparato, è che se vuoi arrivare da qualche parte non devi perdere tempo e stabilire priorità agendo in basse a esse. In un articolo pubblicato proprio da voi, ho riassunto quello che è il mio modo di pensare con questa frase: «Io me ne sto qui, con i miei obbiettivi da raggiungere, la mia arte e le mie parole. Ho abbandonato tutto, isolandomi da ciò che è irrilevante per portare avanti la mia di vita.»
Mi rendo conto che è un po’ estremo, ma è la verità. Non è prendendosi una vacanza, facendo aperitivo o andando al mare per pubblicare storie o foto sui social che si ottengono risultati che valgono la pena ricordare. Anche a costo di sembrare ridicolo, elencherò punto per punto cos’ho intenzione di fare per l’avvenire:
– Leggere tanto e scrivere tanto per migliorare la qualità della mia scrittura.
– Trovare una casa editrice seria che mi tuteli, sostenga e promuova (punto alla Mondadori, non ho paura di dirlo ad alta voce).
– Scrivere al servizio della gente semplice.
– Continuare a farlo facendomi sanguinare gli occhi e le dita.
– Vincere il Pulitzer

– Andare a Stoccolma a ritirare il Nobel.

Seneca scrisse: Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.
E io, ragazzi, credo di avere le idee abbastanza chiare. Magari sarà difficile, o forse no, ma difficile non significa impossibile, e dal momento che la mente non è addestrata a pensare all’impossibile, anche l’inezia più assurda può essere realizzata.

So di potercela fare.

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