Yes Ma’am – Una romana a Doha

I traslocatori hanno caricato le ultime cose. A breve arriverà il taxi che, dopo due anni, ci porterà via dal nostro Compound Qatarino, in quella che solo ora è Al Maqareen Street.

Per i cari tassisti rimane Dar Muraick Compound. Ormai conoscono i miei spostamenti meglio di Google.

Quanta emozione negli occhi di ognuno: i ragazzi della manutenzione pregheranno per me e la mia famiglia, il manager giordano, con cui ci siamo confrontati su Bibbia e Corano, parmigiana e shish taouk, ha pianto. Con i vicini di ogni dove l’utopistica promessa è quella di restare in contatto.

La gang dei ragazzini mi ha riempito di baci e caramelle. Ho stretto le nannies che mi hanno aiutato centinaia di volte a trovare il mio cinquenne nelle case dei suoi amichetti.

La sabbia nella gola, il caldo atroce, la luce accecante, i profumi intensi, l’onnipresente beige e le tante persone con usanze diverse sono casa ormai, e io le sto dicendo addio.

Arrendermi a tutti i cambiamenti è stata la mia più grande vittoria della sfida partita nel 2012.

Mi siedo sui gradini insabbiati e torno ai primi mesi in cui continuavo a combattere a colpi di Hoover la presenza costante di questa polvere dorata.

Da quando poche settimane prima ero arrivata, uno sciame di bambini urlanti scortava ogni giorno il mio rientro, dall’entrata del compound fino all’aiuola della mia villetta, puntuali e immancabili come il benvenuto dei villaggi vacanze. Erano bambini di ogni provenienza, ma si capiva che a capo della banda c’erano i Qatari, fosse solo perché giocavano in casa e sapevano destreggiarsi tra Manager, i due factotum e il popolo di nannies filippine che badava ai più piccoli, sostituendosi a madri invisibili.

Un giorno come tanti, avevo fatto segno al tassista di aprire il portabagagli per farmi scaricare la spesa. Subito la tunica bianca di Hamada era apparsa, neanche avessi sfregato una lampada. Aveva preso tutte le buste e le aveva lanciate sul gradino vicino alla porta, con la grazia di un tiro di bocce.

Hamada Hamada: un gigante dal cuore tenero, buona volontà, tempi desertici e la conoscenza del solo dialetto arabo facevano di lui una persona disponibile ma con calma, e di me una disperata che gesticolava nel modo sbagliato. Due incompresi.

Ero sfinita. Gli avrei raccontato in un altro momento che aveva appena fatto una frittata di mele, carote e sushi. Inutile anche ogni tentativo di fargli varcare la soglia di casa. Era troppo discreto e rispettoso. Per il giardino, il discorso cambiava. Lì Hamada regnava sovrano, indifferente a tutti i miei “Basta acqua”.

Dopo aver superato prove per le quali anche Tom Cruise chiederebbe lo Stuntman, ero arrivata a casa. Fanculo la palma flottante nell’aiuola. Avrei ripreso la mia battaglia con Hamada sul controllo del Tubo Magico l’indomani.

“Mio amor, come mai a quest’ora? Shopping? Hai portato il piccolo a far merenda al Villaggio?”. Mio marito, ingenuo lui, alla fine di una lunga giornata di lavoro, chiese sorridendo.  Rimpianse di non aver taciuto. Anche nostro figlio cinquenne, avvertì l’arrivo della burrasca e andò a rifugiarsi in cameretta.

In apnea come il grande Maiorca gli scaricai addosso le mie giornate da quando ero arrivata nel deserto dell’incomunicabilità: “Tranquilla, in Qatar tutti parlano inglese un cazzo!”.

Subito dopo colazione si partiva con Diesel, la ragazza filippina che mi aiutava nelle pulizie per evitare che vivessimo in una clessidra. Adorabile esempio di Yes Ma’am. Diceva sì ad ogni richiesta. Sorrideva e poi faceva il cazzo che voleva. È considerato scortese dire “no” nella sua cultura. L’educazione per loro è importante.

Mentre lei prendeva a secchiate l’intera casa e io pensavo che per essere nel deserto ce n’era di acqua da sprecare, apparivano i ragazzi della manutenzione per i lavoretti ordinari. Stessa filosofia: “Oggi colleghiamo il tubo della lavatrice allo scarico ragazzi?” “Yes Ma‘am”, e trovavo la casa allagata.

In attesa paziente del taxi per le commissioni giornaliere, mi disperavo in giardino con il mio “facpocum”. Il buon Hamada puliva gli spazi comuni con l’energia di un leone dopo il pasto, oppure annegava felice le mie povere piante. Si accaniva in particolar modo con la palma innocente. Sorrideva e inondava, perennemente sconcertato davanti al mio movimento di braccia a tergicristallo a simulare uno STOP.

Sconfortata dalle prime sconfitte comunicative del mattino, vagavo da un Mall all’altro, perché a Doha sembrava si divertissero a spargere i prodotti nei diversi centri commerciali: il pane al Villaggio, il formaggio al Mega Mart, la carne al City center.  Ovunque lo stesso problema: riuscire a interagire con il popolo di bangladesi, indiani, filippini, che continuavano a rispondere “Yes ma‘am!” a domande come “Dove trovo il latte senza aggiunta di Vitamina D, C, B, ferro e plutonio?”, “Ci sono confezioni di riso sotto i 25kg?”, “Posso fare l’arrosto con la carne di cammello?”, “Cos’è il daikon?”

Giunta provata alla cassa, mentre l’addetta faceva scorrere i prodotti sul lettore, al suo fianco trovavo l’immancabile omino delle buste. Muto come un affiliato a una cosca, il soggetto annuisce, sorride e imbusta finocchi con candeggina, uova e insetticida, pesce fresco e veleno per topi, mettendo massimo due prodotti in ogni sacchetto. Non ucciderlo credo sia uno dei test psicoattitudinali dei Marines. Non esiste, sappiatelo, un modo garbato per farlo smettere. Il rude – Ti do la mancia, basta che sparisci – è, ahimè, fallimentare. La dignità del lavoratore vince sul vile denaro.  Bisogna agire d’anticipo e con prepotenza arraffare i prodotti per imbustarli a proprio gusto. La soddisfazione di tornare a casa con ogni acquisto al suo posto è impagabile.

Uscita dal labirinto di Cnosso, munita di un carrello poco più piccolo di un SUV, mi avvicinavo al parcheggio dei taxi: secondo livello del videogame NOWAYHOME.

Il crogiuolo di razze che si avventava sulle macchine in fila era da documentario di Sir Attenborough. Stessa legge della giungla capitolina – Se c’eri tu prima, io non ti ho visto. Bisognava accaparrarsi le White Car in un mare infinito di scelte. Capire il motivo mi costò ore di attesa a quaranta gradi.

Ammetto che i primi tempi avevo preso la sfida un po’ superficialmente, un po’ come Apollo Creed in Rocky. Venivo da Roma, ero un’assidua consumatrice di taxi, al limite della dipendenza, e avevo avuto a che fare con ogni esemplare della specie dei tassisti. Nulla poteva spaventarmi. La gentilezza portava ovunque.

Il primo mese mi dimostrò il contrario.

Il celeste non fu più il colore del cielo e dei puffi, ma quello delle vetture da evitare, rischio TSO: ti lasciavano in mezzo alla strada se c’era troppo traffico, stabilivano la tariffa in base al meteo, scomparivano con il buio.

Il famoso shock culturale nel passaggio dall’Europa al Qatar, di cui tutti mi avevano parlato in termini di donne ricoperte da Abaya nere e uomini in tuniche bianche, Ramadan con interruzione di ogni attività e divieto di mangiare e bere in pubblico, il Muezzin che cinque volte al giorno richiama alla preghiera col tono di uno cui hanno sparato ad un piede, le nannies filippine che consumano giornalmente il corrispettivo mensile di una rosticceria siciliana, fu  niente rispetto al sentire rispondere da un driver della Puffocar, al mio  “Dar Muraick Compound, please”,

Yes Ma’am. Me arrive yesterday, ok?

Quasi in lacrime gli avevo chiarito in inglese che non era normale che fosse arrivato ieri e già guidasse un taxi. Aveva almeno la patente? Gli spiegai che anche io ero arrivata da poco in città e non sapevo la strada. Forse qualche punto di riferimento, niente di più. Gli chiesi di attivare Waze, tanto in voga a Doha. Dopo aver annuito ad ogni mia parola, aveva sorriso. “Yes Ma’am, me arrived yesterday, ok?”

Si era fatto buio e mio figlio, per quanto abituato a questi giri di giostra quotidiani, mi guardava assonnato. Capitolai.

“Ok”.

Facemmo i cinquantadue laps di Formula 1 intorno a ogni rotatoria.

Due ore dopo, arrivata al compound, come sempre c’era venuta incontro la gang 0-12, che vagava a tutte le ore dalla piscina al campo da tennis, dalla palestra alla Club House.

Hamada aveva smesso di annaffiare e mi aveva aiutato con le buste. Le aveva lanciate come sempre.

Mi ero commossa. Ero a casa.

 

Il taxi è arrivato. L’ultimo saluto lo lascio proprio per il mio Acquaman. In fondo grazie a lui mi sono iscritta al corso di arabo dopo pochi mesi dal mio arrivo. Ne andava della sopravvivenza della specie umana e della flora locale. 04Gli ho comprato un tubo nuovo e, per congedarsi degnamente, mi mostra la palma nuova che ha piantato. L’altra me l’ha annegata lui.

 

Auguro ad entrambi buona fortuna.

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2 risposte

  1. Cara Vanessa, mi sembra ancora di vederti a Dar Muraikh, anche perché, quando mia figlia andava a scuola dalle tue parti, eri il mio riferimento mattutino: l’unico posto dove solo un’expat si può permettere di bussare alle 7.15 del mattino dopo aver lasciato la prole a scuola, a svariati km (e rotonde!) lontano da casa.
    Nel frattempo, negli 11 anni trascorsi nell’amato “sabbione”, tante cose sono cambiate, ma tante sono rimaste uguali e sono quelle che rendono il Qatar unico, nel bene e nel male, permettendogli di scavare, anno dopo anno, un posto speciale nel cuore di chiunque ci abbia vissuto.
    Grazie Vanessa per il tuo spassoso racconto

  2. Ricordo benissimo i nostri caffè, le nostre risate, le lezioni di arabo, le mattine ad allenarci. Ricordi piacevoli ed eterni.

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