Questa di Marinella è la storia vera?

La terrazza è quello che ci si aspetta da un albergo di lusso. La vista sui tetti di Roma, sul Colosseo e i Fori è la meraviglia che invece non ti aspetti anche se vivi a Roma da tutta la vita.

Gli ospiti, rilassati nei loro abiti da cerimonia, si godono la brezza che miracolosamente questa serata di fine giugno regala.

Marinella, in tailleur pantalone bianco, mi viene incontro sorridendo. Mi abbraccia e mi bacia con la stessa foga di quando eravamo bambine. Lei è sempre stata più fisica di me. La baciona del duo. Saluta Myriam, la mia più uno, che conosce dai tempi della scuola, e ci accompagna dai suoi genitori. Abbraccio i miei zii, continuo a sorridere, seguendo il loro tacito desiderio di tenere in piedi la commedia.

Quattro chiacchiere per far finta che non sono passati cinque anni dall’ultima volta che mia cugina mi ha rivolto parola; battute e risate sui vecchi tempi per evitare di parlare dei nuovi, e poi il brindisi. Mio zio alza il calice invitandoci a imitarlo, guarda sua figlia negli occhi escludendo l’altra figura dalla vista e dall’augurio, e con tutta la sua arte recita: “Felice festa di non matrimonio”.

Tutti ridono e ingollano lo champagne.

Marinella mi prende per mano e mi accompagna verso la sua Andy. Sarà anche scozzese, ma somiglia terribilmente a Michele, il suo ex ragazzo partenopeo. Alta, spalle larghe, capello corto e addome da commendatore anni ’80, giacca e cravatta. Una stretta di mano da Highlands gamer e un sorriso genuino accompagnano il suo “nice to meet you”.

“Sarà pure donna, ma solo anatomicamente parlando”, mi sussurra Myriam tra un sorso di champagne e un canapè.

Non le rispondo. Non sono qui in questo momento. Sto cercando di tornare indietro negli anni per capire come sia possibile che nessuno di noi abbia capito che Marinella preferisse il gentil sesso. Mi chiedo se anche lei se ne sia accorta solo ora o se abbia cercato di negarlo a se stessa fino a quando la verità non le è scoppiata in faccia. Non ha mai amato le cose complicate eppure si è sempre complicata la vita.

Mari è sempre stata brava a mascherare i pensieri, a nascondere le emozioni. Se il proverbio vuole che lo sguardo sia lo specchio dell’anima, Marinella è l’eccezione. Può guardarti dritta negli occhi, fingere di ascoltarti e anche concordare con te mentre è convinta del contrario, o semplicemente pensare ad altro. Non so quando ha imparato il suo ruolo, ma da che mi ricordo ha un personaggio da interpretare e lo fa h24, indipendentemente dal pubblico. Mi ha sempre fatto sorridere il suo modo di non ascoltare nessuno. Pone la domanda e neanche il tempo di ricevere la risposta che sta già parlando d’altro. L’idea è che guardi tutti e tutto, ma non osservi niente e nessuno.  Da bambine era la mia Wonder Woman perché riusciva nei giochi con i maschi e tutto sembrava risultarle semplice.  A colpirmi, però, erano i suoi occhi. Anche quando sorrideva o rideva a crepapelle, quegli occhioni scuri e profondi non brillavano insieme a lei. Con l’adolescenza tutto era cambiato. Il seno eccessivamente prosperoso e qualche rotolino sulla pancia avevano riportato la farfalla nel suo bozzolo.

Ancora oggi cammina sblusando la maglia all’altezza del seno e chiudendo le spalle per nascondere quello che arricchisce i chirurghi plastici. Porta camicie e maglie morbide sulla pancia. Trattiene l’addome in dentro in presenza di chiunque. Le viene spontaneo, come a una tartaruga rientrare nel guscio. Nonostante l’altezza, l’ampia schiena e le gambe affusolate, per anni si è nascosta dentro abiti di una taglia superiore pur dichiarando una 42. Per lei l’apparenza è vitale. La sostanza non esiste se non è visibile agli altri. Nessuno sa chi sia Mari. Nemmeno io. Ma com’è possibile?

Butto giù un altro calice di champagne, e mentre Myriam chiacchiera con mia zia del catering io cerco mia cugina nelle pagine della nostra vita per capire dove ho perso il segno, quale capitolo ho saltato o mal interpretato o semplicemente quali pagine lei ha voluto strappare per poi riscriverle.

Siamo nate a nove mesi di distanza e abbiamo passato buona parte dell’infanzia dividendo lo stesso letto, il tavolo dei bambini, le caramelle Rossana e le sgridate. Abbiamo litigato per chi sarebbe dovuta stare sopra o sotto nel letto a castello ogni santa vacanza, per il “ciccetto” dell’insalata, per la coscia di pollo – ché il petto è stoppaccioso e te lo mangi tu –, per le bambole cui lei lavava sempre i capelli e toglieva i vestiti ché altrimenti si annoiava a giocare a mamma e figlia. Abbiamo passato nottate a parlare di ragazzi per tutto il periodo delle superiori, e Mari si divertiva e non se ne faceva scappare uno. Fino a Michele. Di lui si era innamorata. O perlomeno, questo era quello che vedevano i miei occhi di ragazza. Per lui aveva iniziato a mentire ai genitori, a scappare di nascosto a Napoli ad ogni occasione, a trascurare la scuola. Per lui aveva messo in discussione il suo idolo assoluto, il padre. Lo aveva affrontato in discussioni sempre più accese dove le parole avevano inflitto ferite impossibili da cicatrizzare. Aveva perso la sua migliore amica, suo fratello e infine aveva lasciato il suo lavoro nell’attività di famiglia e tagliato fuori dalla sua vita anche me. Solo la madre era riuscita a restare nel suo mondo, pur ribadendole, come noi tutti, che ai propri occhi Michele rimaneva un opportunista, un arrampicatore sociale, uno scansafatiche senza ambizioni. L’amore materno aveva avuto la meglio? O la necessità di un alleata?

Era stata proprio mia zia a dirmi che Mari tornava da Londra dopo cinque anni per sposarsi con Michele a Roma. Ovviamente non ero nella lista degli invitati. Coerente.

Poi la telefonata.

Marinella mi aveva chiamato dall’Inghilterra mentre ero in spiaggia col mio ragazzo. Ricordo un vento fastidioso che soffiava i capelli sul viso, la sabbia negli occhi e mi impediva di sentire bene.

“Nat, non mi sposo più. Ci siamo lasciati. Non so se mia madre ti ha detto…” così dal nulla, dopo cinque anni di assenza.

“Mi spiace. Stai bene?”

“Benissimo, c’è un’altra persona”

“Sei innamorata di un altro?”

“No, Nat c’è un’altra”

“Bastardo, e da quanto tempo sta con questa?

“No, io ho un’altra.”

Le avevo chiesto di ripetere ogni frase perché continuavo a sentire malissimo, ma lei insisteva nel ripetere un’altra così avevo risolto chiedendo il nome.

“Andy”

“Ma dai, si chiama Andrea anche lui, come il mio ragazzo”

“Sì, si chiama Andrea, ma è una donna, una collega scozzese… ci sei?”

Avevo avuto bisogno di un attimo per trovare le parole.

“Sei felice? Ti rende felice?”

“Sì, come non mai”

“Allora tanti auguri”.

Quando c’eravamo salutate, mi ero resa conto che non mi interessava assolutamente che mia cugina fosse lesbica, la volevo felice, ma facevo fatica a collegarla alla ragazzina e alla donna che avevo sempre conosciuto. Si era portata a letto parecchi ragazzi e con notevole entusiasmo, e ora semplicemente non le interessavano più. Non capivo. Ero confusa.

Anche adesso, qui in questa terrazza dove appena un mese fa si doveva festeggiare il matrimonio in cui non ero prevista, e dove oggi i miei genitori e i miei fratelli non sono stati invitati perché la cosa non si deve sapere – ché la gente sai com’è fatta -, mi chiedo se la mia amica Myriam sia il mio più uno o sia io un numero per riempire la sala e non mandare a puttane l’anticipo dato per la cena nuziale.

L’invito arrivato con un’altra telefonata lampo.

Guardo i miei zii e so che questo è per loro il male minore per essersi tolti dai piedi quell’ortica di Michele, ma l’effetto sorpresa ha lasciato un segno, un punto interrogativo gigante sulle loro facce che nessun sorriso riesce a coprire. Forse il tempo e l’amore.

Mari invece sorride, balla, abbraccia. Sembra felice, sembra serena. Ma Mari è sempre sembrata felice e serena. Mari è sempre vissuta in posa. Sarà questa di Marinella la posa vera?

Me lo auguro; prendo un calice di champagne e primi di unirmi alle danze lo sollevo.

Che le due bambine tornino a ridere e ad abbracciarsi.

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