Cammino e pregiudizio

Per comprendere davvero qualcosa, bisogna mettere da parte i pregiudizi ed ascoltare.

Questa frase la nonna l’aveva inculcata a Marilena da bambina, e ora continuava a batterle in testa come un tormentone estivo mentre tornava dalla Caritas dove aveva distribuito pasti e vestiti.

Servire alla mensa la metteva a disagio. Quelle facce le incontrava ogni giorno sotto i portici della città con un cartone di vino in mano. Donne sciatte, volgari; uomini dell’est sboccati e violenti, africani indolenti e lamentosi. Tutti con lo stesso sguardo vuoto. Era quello il modo di aiutare questi scarti della “società civile”? Sicuramente dietro avevano storie di povertà, violenza, ignoranza, dolore, e nel dargli da mangiare e da vestire le sembrava di togliere loro l’ultimo briciolo di dignità e di volontà. Usciva da lì frustrata, consapevole che li avrebbe trovati con lo stomaco pieno e un cappotto rimediato, completamente ubriachi o fatti dopo un paio d’ore. Ognuno aveva un passato, ma ai suoi occhi tutti avevano in comune il male di vivere e senza un percorso guidato si sarebbero persi continuamente, come quelli che vanno a fare trekking la domenica e prendono puntualmente il sentiero sbagliato. All’inizio di ogni cammino o quando ci perdiamo, abbiamo bisogno di una guida.

– Serve amore a queste persone, non una zuppa -.

Questo disse alla madre superiora responsabile della Caritas locale. Dalla freschezza dei suoi vent’anni Marilena era certa di vedere le cose con una prospettiva più chiara di una donna di chiesa di vecchia generazione inflessibile e severa, che gestiva l’ambiente come fosse una caserma.

La donna ascoltò ogni parola guardandola dritta negli occhi e le disse: “fermati ad ascoltare le loro storie. Molte saranno bugie. Hanno dovuto imparare a mentire per sopravvivere. A me non serve. Io voglio che abbiano una giacca calda perché il freddo entra nelle ossa come la solitudine. E la certezza di un pasto. Per chi ha perso tutto, una certezza riempie più della zuppa”.

 

 

 

 

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