“I promessi sposi”, di Alessandro Manzoni – Capitolo XXVIII

Chinarsi sul più debole…

 

Una delle frasi più illuminanti da ascoltare, che rende ragione della verità dello scopo della vita umana, è la seguente:Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi” (Luigi Pintor). Illuminano queste parole, perché non c’è nessuno al mondo che non sia, contemporaneamente, portatore sano di forza e di debolezze. L’altro su cui chinarsi non è solo la persona oggettivamente in condizione di debolezza, come gli affamati, gli assetati, i nudi, i forestieri, gli ammalati, i carcerati, gli agonizzanti, i disorientati, gli ignoranti, i sofferenti di ogni tipo, ma anche colui che, apparendo forte, o presumendo di essere tale, ha bisogno comunque di qualcuno che se ne faccia carico, per aiutare quella persona a smascherare quella finta fortezza come la più grande debolezza. A pensarci bene, c’è anche chi ha effettivamente “carismi forti” ma che, lasciando che questi implodano nell’indisponibilità a condividerli o mettendoli a servizio del male, si rivela come una persona anch’essa bisognosa della cura di qualcuno che si chini su di lui, non per fasciargli le ferite, ma per aprire feritoie mediante le quali immettere in circoli virtuosi le proprie capacità di bene. Restando su quest’ultimo tipo di debolezza, guardando a ciò che si rende necessario in situazioni di urgenza nel campo medico, è possibile trovare delle conferme. Solo due esempi: la tracheotomia e la episiotomia. L’una, per creare un’alternativa quando non è possibile la respirazione per via naturale; l’altra, per dilatare il canale del parto in caso di pericolo per la madre o per il bambino. Entrambi gli esempi hanno a che fare con la possibilità di vivere. Quella stessa opportunità di vita negata o, piuttosto, stroncata anzitempo dalle conseguenze della peste che il Manzoni, riporta con il seguente, straziante periodo:

“Vidi io, – scrive il Ripamonti, – nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna… Le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso… Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa… Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno”.
Verrebbe da concludere qui, lasciando a chi legge di contemplare questa scena, ovvero di volervi entrare con un atto d’immedesimazione, per comprendere, in quella circostanza, cosa avrebbe fatto: lasciarsi prendere dalla commozione, cioè da quel sentimento che muove all’azione a favore di qualcuno o da un’inerme emozione? L’inconsapevole orfanello, quel giorno, trovò più d’una persona disposta a fargli da madre, ovvero capace di chinarsi su di lui per prendersene cura. E noi, su chi siamo chiamati, dalla nostra coscienza, a chinarci? Probabilmente è innanzitutto sulla nostra personale debolezza, la quale, curata anche se non del tutto guarita, può diventare punto di forza per sollevare gli altri, riflettendo una debolezza illuminata e illuminante, una debolezza narrante.

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