“I promessi sposi”, di Alessandro Manzoni – Capitolo XXVI

Una parola che zittisce le chiacchiere…
Una delle rarità del nostro tempo è quella di trovare qualcuno che sia disposto ad ascoltare, con umiltà e pacatezza, una parola “contraria”, una correzione nei suoi riguardi. Tra le righe del dialogo tra il cardinale Federigo Borromeo e don Abbondio emerge, da parte di quest’ultimo, proprio questa difficoltà. Eppure – ed è questo un vero miracolo -, vien riferito che, ad un certo punto:
“Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire”.
Un silenzio forzato si può manifestare, sul volto di chi non ascolta, attraverso uno sguardo frammentato, un sorriso falsato, un sospiro frustrato. L’impazienza, invece, è l’istanza dirompente dell’ascolto di una parola creduta inaccettabile, di un conseguente parlare considerato inevitabile, di una parlata contrariata e irriverente.
Lo stare zitto esteriore di don Abbondio, in qualche modo, è addestrato da uno zittire interiore che, probabilmente, era stato fomentato dalla fermezza e potremmo dire dalla fierezza di come quelle parole veritiere gli erano state riferite. Convinzione e coerenza di chi parla, Federigo, conducono chi ascolta, Abbondio, a considerare e a concludere nel silenzio un dialogo precedentemente intriso di disdicevoli scuse.
Le chiacchiere zittite sono al centro di alcuni versi di un poeta, Clemente Rebora; essi suonano così: “Quasi maestro agli altri mi porgevo;/ ma qualcosa era dentro me severo:/ Ferma il mio dire, se non dico il vero./ E un giorno – nel salon pieno quant’occhi! -/ il discorso iniziato venne meno/ in una turbazion vicina al pianto: / la Parola zittì chiacchiere mie”. Qui, il linguaggio poetico diventa un aiuto all’interpretazione della prosa manzoniana e, lungi dal volerne dare lunghe spiegazioni, si può concludere che possono essere benedetti quei momenti in cui le parole vengono meno lasciando spazio a un pensiero diverso, talvolta espresso nell’eloquenza di un pianto.
Caro Abbondio, facciamoci coraggio a vicenda, per imparare a piangere le nostre chiacchiere inutili, in un silenzio che ascolta e che diventa, nell’ammissione della necessità di un dire e di un agire diverso, un pensare narrante.

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